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martedì 11 gennaio 2011

LA SANITA' A BALA MOURGHAB

La nostra amica e collega Anna Rolli di Agenzia Radicale tra Natale e Capodanno ha visitato Bala Mourghab al confine con il Turkmenistan, uno dei luoghi più caldi del RCW il territorio afghano sotto il controllo del contingente italiano e ci ha cortesemente inviato questo testo e le relative foto.


PARLIAMO DI CONDIZIONI SANITARIE DOPO TRENT’ANNI DI GUERRA
a cura di Anna Rolli
Presso il confine con il Turkmenistan nel nord-ovest dell'Afghanistan, nella valle di Bala Murghab, scorre un fiume lucente e verdazzurro, come invetriato nel terreno asciutto e polveroso. Il fiume chiamato Murghab si dirige verso nord ed è perenne, caratteristica quest’ultima di grande importanza in un paese estremamente arido. Non lontano dalle sue sponde sorgono  villaggi di etnia pashtun, con minoranze di tagiki, uzbeki e turcomanni. I più piccoli di poche centinaia di persone mentre  il più grande Bala Murghab  conta 10.000 abitanti ed ha nel centro un bazar ed un piccolo ospedale con due medici afgani che  si occupano di un bacino di utenza di circa 44.000 abitanti. L’ospedale è privo di camera operatoria, uno dei  medici parla inglese, gode fama di essere molto bravo e si occupa del reparto maschile, l’altro parla soltanto il dialetto locale, non si sa con certezza se sia un medico oppure una specie di curatore e si occupa del reparto femminile.  Un altro ospedale opera più a Sud, a due giorni di viaggio in autobus, nella cittadina di  Qala-i-Nau,  dove è situata anche  la banca più vicina.
Quanto detto potrebbe già dare l’idea della drammaticità della situazione.
Una mattina, con un convoglio militare, mi sono recata a visitare l’ospedale di Bala Murghab e ci ha accolti,  al colmo della sorpresa, il medico in camice bianco con il quale ho scambiato le prime battute in inglese nell’ingresso dove è collocato il reparto maschile. Subito, un po’ concitato, mi ha invitata a trasferirci nel reparto femminile. Sapevo bene che la mia presenza in quel luogo, tra tanti uomini barbuti, già di per se, rappresentava un sacrilegio, così, per puro divertimento, ho preso a tergiversare. “ Ma non sono una paziente” ho esclamato “ quindi possiamo parlare anche qui!”. Il medico insisteva e si  guardava attorno con aria disperata, ovunque ceffi e cipigli sotto scuri turbanti e di fronte una pazza occidentale, non solo senza velo ma, orrore supremo, in giubbotto antiproiettile ed elmetto, con al seguito tre giovani soldati armati di fucile mitragliatore e fuori un blindato in attesa. Era talmente evidente il suo totale smarrimento che presa da umana simpatia l’ho seguito docilmente.
 
In fondo ad un cortile affollato di figure velate d’azzurro e di bambini piangenti, una stanzetta gelida funge da ambulatorio. Lì ci siamo seduti, accanto al medico “ per le donne” in berretto bianco e  rosario di legno scuro tra le mani, e il medico “per gli uomini”   mi ha parlato a lungo con il suo tipico, monotono inglese orientale. Mi ha parlato della malaria che ricompare ogni anno con l’estate; del tifo, dell’epatite e della dissenteria, endemiche giacché non esiste un sistema fognario e acque e polvere portano i batteri dovunque; della mancanza di alberi  per centinaia e centinaia di chilometri per cui la gente è costretta per il fuoco ad utilizzare sterpaglia e poi arriva in ospedale con la brucellosi una terribile malattia trasmessa dalla carne non  cotta a sufficienza; dei reumatismi e delle artrosi in un territorio che in inverno raggiunge i 20 gradi sotto lo zero e dove non è possibile alcuna forma di riscaldamento.  Il medico mi ha spiegato che sono soltanto in due mentre ci sarebbe bisogno di almeno sei dottori e di una ventina di infermieri; infine mi ha pregato di ringraziare con tutto il cuore i nostri militari che curano i malati e che a volte con l’ aereo hanno trasportato quelli più gravi in ospedali lontani.

Nei pressi del villaggio di Bala Murghab, i militari della forza di pace, stanziati nell’avamposto militare omonimo,  si occupano dell'assistenza sanitaria secondo un  piano detto: MEDCAP. Gli americani oltre a mettere a disposizione la loro  sala operatoria forniscono  farmaci e attrezzature, gli italiani mandano personale medico e para-medico in tutti i luoghi più disagiati almeno una volta al mese. Per la gente infatti,  soprattutto d'inverno, con il ghiaccio e la neve, è molto difficile raggiungere l'ospedale. Senza strade, lungo sentieri appena tracciati, arrivano a piedi da luoghi lontani chilometri o decine di chilometri e a volte lo fanno trasportando i malati con una carriola.

Appena tornata  in base ho scoperto inoltre  che, alcuni mesi fa,  gli operatori sanitari italiani in gruppo* avevano richiesto, per iscritto,  il permesso di occuparsi  degli afghani malati e che il comandante, il colonnello Andrea Piovera, lo  aveva accordato volentieri mettendo a disposizione una tenda per l’ambulatorio.  Il giovane e gentile ufficiale medico, il tenente Trevisani mi ha detto  “ Noi siamo un settore particolare e se non diamo una mano noi chi può dare una mano?”.  Mi ha anche spiegato che i medici privati in Afganistan sono molto esosi  e che negli ospedali pubblici c’è molta corruzione, la gente povera quando non può ottiene cure nell'ospedale pubblico si rivolge agli italiani però, al fine di creare un clima di collaborazione con i medici dell'ospedale di Bala Murgham, si richiede ai malati di andare prima  da loro e nel caso di venire alla nostra base con una diagnosi  scritta in inglese. Mi ha anche spiegato che soltanto due anni fa la situazione qui era molto più difficile ma oramai si è stabilita una buona collaborazione con la popolazione locale e migliora giorno dopo giorno, per questo si tende a ridurre le MEDCAP e a sostituirle con  l’ addestramento degli operatori sanitari afgani che si mostrano molto volenterosi anche se poco preparati perché spesso non sono medici e quindi è necessario tentare d’insegnargli quanto più è possibile. Poi mi ha raccontato delle ferite che si infettano con estrema facilità e dei casi di cancrena e delle amputazioni praticate all’ospedale americano, e delle scarpe, una delle richieste più comuni,  soprattutto d'inverno, oltre a quella di costruire dei pozzi d'acqua,  e delle donne turcomanne che sono più libere e vengono a chiedere aiuto mentre le pashtun non escono quasi mai di casa, e dell’umanità di tanti poveri contadini che fanno di tutto per salvare i propri cari e piangono quando i medici li dichiarano fuori pericolo.
Mentre parlavamo è arrivato un bambino di sei  o sette anni accompagnato da un barbuto papà. Aveva vestiti poverissimi e luridi e il labbro inferiore enorme perché un  piccolo taglio sul mento si era infettato. Non ha pianto, non si è lamentano mentre lo disinfettavano e incerottavano, solo agitava le manine in silenzio,  alla fine ci ha guardato con occhi sgranati, ansiosi di ricevere le liquirizie e caramelle che, come ogni bambino locale ben sa, vengono regalate ai piccoli dai nostri soldati, infine  serio e composto si è seduto davanti alla tenda e ha iniziato a scartare e a sgranocchiare incurante della bocca malmessa, e il papà accanto a lui aspettava paziente e intanto con occhi di brace, sotto il logoro turbante, scrutava la scandalosa familiarità con cui uomini e donne occidentali osano lavorare insieme e poi trattarsi a pacche sulle spalle e a strette di mano e addirittura intrattenersi a ridere e a chiacchierare. 
 
Ho parlato a lungo anche con il luogotenente Giuseppe Di Lillo, che con altri è stato impiegato ad Herat, nella sede della PRT ( Provincial Reconstruction Team), dove gli italiani hanno lavorato notte e giorno, ben oltre l’orario di servizio, per smaltire le interminabili file di pazienti che si presentavano ogni mattina. Mi ha raccontato che a volte i familiari portano i malati dal medico quando è troppo tardi perché arrivano  a piedi da posti lontani, oppure non permettono alle donne di farsi visitare ma mandano dal medico un maschio della famiglia a riferire i sintomi e a chiedere un rimedio, così le donne arrivano in ospedale quando sono già in fin di vita. Mi ha raccontato della violenza sulle donne  che si presentano coperte di lividi sotto il chador ma anche di familiari  che trasportano i loro cari per chilometri e chilometri, ogni volta che è necessaria una medicazione. Mi ha parlato infine delle giovani donne con grappoli di bambini, devastate dalle gravidanze che arrivano chiedendo anticoncezionali ma i nostri operatori non sono autorizzati a distribuirli perché in Afghanistan non si parla di pianificazione familiare  da parte del governo.
In uno dei paesi più poveri, con uno dei tassi più alti di mortalità infantile e con un’attesa di vita tra le più basse nel mondo,  ci piacerebbe capire il perché e che cosa si stia aspettando. Quello che è certo è che il governo afghano attuale da, a molti osservatori, l’impressione di non preoccuparsi a sufficienza della condizione femminile, condizione che in questo paese devastato per tanti versi è davvero spaventosa.

*Ufficiale medico, tenente Marino Trevisani  di Taranto; luogotenente Giuseppe Di Lillo di Maddaloni, Caserta; caporal maggiore scelto Ugo Scognamiglio di Napoli; caporal maggiore Maria Nunzia Florio di Grazzanise, Caserta.




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