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sabato 4 dicembre 2010

LA FUNZIONE DEI MENTORS



L'Afghanistan dei taliban che il mondo civile si è ripreso con le armi di Enduring Freedom, non era uno stato ma un territorio in balia di un'interpretazione restrittiva della shari'a, applicata con estrema crudeltà e che nella sua visione politica sostituiva qualsiasi altra forma di struttura amministrativa, giuridica, sociale e militare.


Subito dopo la loya jirga, la Grande Assemblea  delle tribù afghane, che portò alla formazione del governo provvisorio di Hamid Karzai, nacque la necessità di creare un corpo di polizia che, secondo i canoni dei Lander tedeschi, potesse riprendere il controllo amministrativo e giuridico delle province. L’organizzazione e l’addestramento di questo corpo di polizia infatti fu affidato sino al 2007 proprio alla Germania.

Ben presto risultò chiaro quanto una simile struttura fosse insufficiente a combattere tanto il narcotraffico quanto lo spietato terrore che gli insorgenti continuano tuttora a riservare a tutti coloro che ritengono rei di dialogare con gli infedeli. 
Gli insorgenti individuarono il punto debole dello schieramento del nuovo governo repubblicano proprio nella polizia di ordinamento tedesco, non adeguatamente preparata a condurre vere azioni militari, che dal gennaio 2007 al settembre del 2008 perse ben 1165 uomini, a confronto dei 420 del nascente esercito afghano.  

Era a quel punto evidente che l’unica strada per normalizzare il territorio e far rientrare al più presto a casa i contingenti della coalizione NATO era quella di accelerare la costituzione di un esercito efficiente e motivato, a cui delegare progressivamente le azioni militari ed un controllo reale del territorio e dei confini.
Impresa assai complicata.
La struttura sociale afghana è infatti basata da secoli su ferrei concetti di censo e casta, all’interno dei quali, per esempio, era praticamente improponibile che un Hazara potesse dare un ordine ad un Pashtun.
Forse anche per questo, nonostante una plurisecolare storia di guerre anche vittoriose ma sempre condotte a livello tribale, l'Afghanistan sino alla metà del secolo scorso non aveva un vero e proprio esercito nel senso istituzionale del termine.
Il primo ministro dell'epoca, Mohammad  Daoud Khan cognato del re Zahir Shah e come lui Pashtun, negli anni '50 si rivolse all'Unione Sovietica per la costituzione di un esercito afghano con lo scopo dichiarato di riconquistare militarmente i territori tribali pashtun rimasti all'interno dei confini del neocostituito Pakistan, disegnati nel 1947 dagli inglesi al momento della scissione con l'India.

Da quel momento l'esercito afghano divenne protagonista nella storia sociale e politica afghana che, dopo la sconfitta dell'Armata Rossa, ne ha seguito il travaglio per poi letteralmente evaporare nel corso del regime talebano.

In questo scenario si inserisce il progetto degli OMLT:
trasferire nel più breve tempo possibile il controllo del territorio dalle forze armate ISAF all'Afghanistan National Army (ANA), com'è stato ribadito nel corso dell'ultimo Summit della Nato a Lisbona, 19 e 20 novembre 2010. In questi due giorni è stato evidenziato come l'azione militare della coalizione in Afghanistan sia transitoria e propedeutica al trasferimento all'ANA delle necessarie competenze di controllo e gestione del territorio, portando a 170 mila elementi la consistenza delle forze armate afghane. Tutto questo rispettando le attuali quote etniche che prevedono il 44% di pashtun, il 31% di tagiki, l'11% di hazara, il 9% di uzbeki e il 5% di militari provenienti da altri gruppi minori.


In termini pratici significa insistere sull'organizzazione e l'addestramento di un esercito di 170 mila soldati che, rispettando la rappresentatività del popolo afghano, sia leale nei confronti del governo e in grado di condurre operazioni militari, inizialmente insieme alle forze armate occidentali e poi in totale autonomia.
La nascente forza afghana è stata così divisa in 5 Corpi d'Armata ognuno dei quali inserito in una delle 5 aree militari in cui è diviso L'Afghanistan.

L'Italia, che ad Herat ha il comando del settore occidentale (Regional Command-West) costituito da militari di una dozzina di nazioni, ha tra gli altri compiti quello di “mentorizzare” il 207° Corpo d'Armata Afghano. 
Ma cosa fanno esattamente i mentors italiani, quanti e soprattutto chi sono?
Il compito degli OMLT è quello di insegnare (teach), guidare (coach) e supervisionare (mentor) il personale dell’ANA nella pianificazione, organizzazione ed esecuzione sia delle attività addestrative che operative sul campo; il detto popolare "armiamoci e partite" in questo caso è diventato "ci stiamo armando per partire insieme".
Per questo i Mentors non solo affiancano i loro pari grado durante la fase addestrativa e gestionale, ma sono al loro fianco anche durante le azioni di combattimento sul campo.


Il colonnello degli Alpini Silvio Zagli è il comandante dell'OMLT del Regional Command West con base a Camp Stone, quaranta chilometri da Herat.
Alle sue dipendenze ci sono per il momento circa 300 soldati tra italiani, spagnoli e americani che, in base alla nuova strategia della NATO dovrebbero diventare 400 nei prossimi mesi.
Negli OMLT sono presenti militari di tutte le specialità dell'Esercito che, se dotati dei requisiti previsti, prima di partire devono seguire numerosi corsi di aggiornamento e formazione.
In Italia il compito di formazione dei mentors è demandato al Centro Addestramento Alpino di Aosta propedeutico ad un ulteriore periodo presso il Joint Multinationational Readiness Center di Hohenfels in Germania, dove si svolgono lezioni relative al Military Decision Making Process e attività pratiche sul campo quali convoy operation, search, hambush e altre tattiche di condotta.

Questa è la prima volta che le Forze Armate Italiane sono chiamate a svolgere un tale compito ed i nostri militari considerano questa esperienza esaltante ed unica nonostante l'impegno veramente gravoso ed i rischi a cui sono esposti.
L'attività operativa dei mentors non è certo facile, perché innanzitutto devono capire la mentalità dei soldati afghani senza peraltro tentare di modificarne tradizioni e usanze e soprattutto evitando di cadere in una facile contrapposizione tra il mondo occidentale e quello orientale.

Insieme al colonnello Pierpaolo Lamacchia, ufficiale addetto ai contatti con la stampa, ho avuto occasione di intervistare a Camp Stone il Generale Jalandar Sha Behnam comandante in capo del 207° Corpo d'Armata Afghano:
"Molti sono i cambiamenti, da quando sono incominciate le attività ISAF in Afghanistan...
...i Talebani erano una minaccia per il Governo e la società, ed il popolo non aveva diritti. ISAF ha aiutato il Parlamento ed il Governo, rafforzando la sicurezza nel Paese e incominciando a creare nel popolo una certa stabilità e fede nei propri diritti.
Il lavoro compiuto a fianco della Task Force italiana dà ottimi risultati: afghani ed italiani rappresentano un Team in cui le due componenti sono molto legate e affiatate.
Per noi inoltre è una cosa gratificante vedere come le varie etnie, Tagiki e Pashtun soprattutto, che prima si contrastavano, ora, nell'ANA, trovano il luogo d'incontro per contribuire alla crescita e al rafforzamento del proprio Paese".

Ho poi assistito ad un'esercitazione di un battaglione di artiglieria afghano mentorizzato dai militari italiani, ancora dotato di vecchi obici sovietici ed eterogeneo per quanto riguarda l'età dei suoi componenti ed il loro livello di preparazione e scolarizzazione.
E' stata un'esperienza molto positiva, direi quasi gratificante per il mio nazionalismo, vedere la professionalità e l'autorevolezza dei nostri militari all'opera nonostante le difficoltà ed il disagio di vivere per un anno lontano da casa all'interno di un campo militare in perenne stato di allarme affrontando problemi di tutti i generi,  compreso il problema della lingua: infatti tutte le comunicazioni verso gli afghani avvengono tramite un interprete che traduce dall'inglese al pashto o al dari perché non ci sono interpreti che conoscono l'italiano, per questo motivo tutti i nostri soldati hanno acquisito un'adeguata conoscenza dell'inglese, di fatto lingua ufficiale della Nato.
Inoltre gli armamenti afghani sono in gran parte ancora provenienti dagli arsenali sovietici e per quanto robusti ed essenziali sono ormai obsoleti e notevolmente diversi da quelli occidentali, anche nell'impiego e privi ormai di manualistica e pezzi di ricambio.

La 1a Brigata del 207° Corpo d'Armata afghano è stato il primo reparto addestrato dagli OMLT italiani ad ottenere la certificazione che rende la Brigata idonea ad operare in autonomia sia in termini di combattimento che di sostegno logistico.
Un grande successo per la NATO ma anche per l'Italia.
Proprio per questi risultati la NATO ha deciso di continuare a sostenere i notevoli costi economici relativi a questo progetto e di procrastinare al 2014 il ritiro del grosso delle truppe, ribadendo così il concetto che il compito delle truppe NATO non è di perseguire una vittoria militare sul campo quanto creare i parametri di sicurezza indispensabili per lo sviluppo economico e sociale.


Oltre ai mentors dell'Esercito in Afghanistan opera una task force della Guardia di Finanza, denominata Grifo, per la costituzione di una polizia di frontiera e un nutrito nucleo di Carabinieri che hanno sinora addestrato oltre 4000 membri della polizia afghana ricevendo per questo pubblici complimenti dallo stesso generale statunitense David H. Petraeus, comandante in capo di tutte le forze armate presenti in Afghanistan.

Dopo un anno di collaborazione,  tra i mentors ed i mentorizzati, si creano rapporti di stima e anche di amicizia rafforzati dal fatto che condividono insieme i rischi delle missioni sul campo.
Al momento in Afghanistan le forze armate e di polizia sono le uniche istituzioni presenti capillarmente su quasi tutto il territorio con compiti che travalicano quelli tipici dei militari.
La possibilità di far parte delle forze armate o della polizia è inoltre per i giovani afghani una grande possibilità di crescita sociale e di sicurezza economica. Anche su questi elementi si basa la strategia della coalizione.

La storia afghana ci insegna come la mitologia, nata nell'antichità per rispondere attraverso simboli universali ai perenni dubbi dell'uomo possa essere d'aiuto a ridisegnare il futuro di un popolo in difficoltà da troppi anni. 
Certo, tutto questo per l'Occidente significa accettare grandi costi finanziari e l'eventualità di perdere sul campo altre giovani vite di soldati; l'alternativa è l'indifferenza.

Antonello Tiracchia
(in redazione Francesca Vinciguerra)

 


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