Il confronto genera conoscenza, libertà e democrazia. L'indifferenza e l'ignoranza generano corruzione e malgoverno. Il dogma e il pregiudizio ideologico generano integralismo e conflitti.

venerdì 31 dicembre 2010

CAPODANNO A HERAT

Fotografia di Giuseppe Lami
Ieri sera dopo la cena presso la mensa di Camp Arena, (erano le 20 ora locale, tre ore e mezzo avanti l'ora italiana) stavo ultimando i preparativi perchè stamane secondo i programmi dovevo decollare per il Gulistan embedded al 7° Reggimento Alpini. 
Sulla base era già calata un'aria di tristezza per la notizia di un Alpimo ucciso da uno sniper, di cui i media avevano già diffuso il nome.
Così un'ora più tardi mi sono ritrovato all'aeroporto di Herat ad aspettare la salma del Caporal Maggiore Matteo Miotto, Alpino del 7° Rgt Alpini della Brigata Julia, che è arrivata a bordo di un elicottero americano scortato da un altro elicottero.
Altri Alpini hanno scaricato il corpo avvolto in una bandiera tricolore in un silenzio spettrale acquito dal freddo e dall'oscurità dell'aeroporto.
Subito dopo è stata aperta la camera ardente nella sala Italia 150.

La cerimonia è stata essenziale ma colma di sacralità e mi ha profondamente commosso, generando un ricordo così forte che probabilmente non dimenticherò mai. 
Questo è stato il mio Capodanno 2011 a Herat, Afghanistan. 




Fotografie di Giuseppe Lami
Questa è la lettera che Matteo ha spedito ad ottobre al Sindaco di Thiene che l'ha letta al Consiglio Comunale durante la commemorazione del 4 Novembre.
Per lo stile e la sensibilità che la permane è diventata un documento cult.
Vi invito a leggerla e diffonderla.

Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.

Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo...

Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L'essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.

Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.

Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio...

Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame...

Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella... Dei loro padri e delle loro madri neanche l'ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria di non essere li per giocare...

Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno lavorando... e i fratelli maggiori , si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa...

Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta... Delle donne neanche l'ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all'ombra...

Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi... Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati...

Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai...” Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi “visto ,nonno, che te te si sbaià...”

Caporal Maggiore Matteo Miotto

Thiene (Vicenza) - Valle del Gulistan, novembre 2010

martedì 21 dicembre 2010

AUGURI

Auguri per un 2011 pieno di...

martedì 14 dicembre 2010

A PROPOSITO DI CORRUZIONE


A gennaio di quest'anno una conoscente ha più volte sollecitato una mia presenza a cena perché voleva presentarmi una persona molto interessata ai miei video contro la petrolizzazione dell'Abruzzo.
Ho accettato l'invito, presso un ottimo (e costoso) ristorante di Pescara, dove l'amico della mia conoscente era chiaramente di casa.
Questo personaggio, d'ora in avanti lo chiamerò per esigenze di narrazione "Puffo", faceva di tutto per rendersi simpatico ostentando apertamente i simboli del suo status, orologio d'oro, macchinone tedesco naturalmente di colore nero e con i vetri oscurati e l'immancabile divisa da commis d'affaire d'alto bordo: abito gessato ma con camicia vistosamente aperta sul collo taurino santificato da un barocco crocifisso d'oro.
Nonostante la sua dimestichezza con il menù e la carta dei vini, scelti in base al prezzo, Puffo aveva evidenti difficoltà a gestire la forchetta con la mano sinistra che usava invece per infilzare il pane con candida ignoranza, mentre continuava a parlare masticando.
Mi ricordava la macchietta politica di Albanese.
Iniziammo una conversazione generalista, mi chiese come avevo passato il natale e quando gli dissi che ero stato in una base militare dell'UNIFIL in Libano con i nostri soldati rispose con queste parole: Anche a me piace molto l'Africa, vado sempre a Sharm el Sheik...
Un'altra perla della serata fu quando feci notare che un abruzzese come Corradino D'Ascanio fosse praticamente sconosciuto agli abruzzesi ed infatti lui mi chiese chi fosse.
Per semplificare gli risposi che era l'inventore dell'elicottero e lui, parlando, ridendo e masticando nello stesso tempo disse: Aho, io su quei cosi mica ce volo, io ce tengo alla mia vita!
Poi mi parlò del Pescara Calcio e della Virtus di Lanciano così ben gestite da due belle ragazze abruzzesi e quando capì che non provavo alcun interesse per il calcio e che purtroppo non sapevo chi fossero queste due belle abruzzesi mi guardò con commiserazione, evidenziando una scarsa frequentazione con gli studi dentistici.

Poi venne al dunque: eravamo li a cena perché era rimasto molto colpito dalla bellezza dei miei filmini per il petrolio (sic!) e che soprattutto era rimasto colpito un mai definito presidente, al punto tale che questo presidente avrebbe voluto affidarmi un incarico importante per produrre un bellissimo filmino sull'Abruzzo. Ma il presidente non poteva farlo pubblicamente, perché se no si sarebbe esposto e tutti avrebbero pensato che facesse favoritismi, per questo il presidente aveva incaricato lui, Puffo, di portare avanti la questione.

Mi chiese che macchina avevo, guardò con attenzione il mio swatch da 70 euro, arricciò il naso notando che dalla mia camicia, leggermente aperta sotto un vissuto maglione di cachemire, non appariva nessuna catena o catenina con cristi e santi e quando ci salutammo guardò quasi con apprensione il mio giubbotto di pelle liso dal tempo e che io amo da almeno venti anni come Linus ama la sua coperta.

Dopo qualche giorno una mattina mi chiamò dicendo che sarebbe giunto a Lanciano e che dovevamo sicuramente incontrarci perché aveva delle bellissime notizie per me.

Ristorante di pesce, questa volta solo noi due, solite chiacchiere e alla seconda bottiglia di Pecorino cambia il tono e passa al tu.
Antonè, ma uno bravo come te si capisce che sta facendo tutto questo casino perché sa dove vuole arrivare.

Perché, dove voglio arrivare? gli domando.

Antonè ma se io in questo momento te prometto 25 mila euro, hai capito bene, venti cinque mila euro - scandendo la cifra e battendosi ripetutamente il petto sulla sinistra, dove c'è il cuore ed anche il portafogli - la faresti finita con sta stronzata del petrolio che sta rovinando l'immagine dell'Abruzzo nel mondo, insieme a quella invasata de americana?
Ma che ve siete messi in testa? Quella è un'invasata e se ne sta in America e va bè ma tu sei uno in gamba, se capisce, e con 25 mila euro hai voglia a fare filmini!

Avevo sospettato sin dall'inizio che fosse questo il suo scopo, ma la sua uscita così diretta e la miseria dell'importo mi avevano spiazzato.
Ci pensai un poco, mi versai un po di pecorino dalla seconda bottiglia appena aperta e riordinate le idee gli risposi:
Questi 25 mila euro sono proprio un bel modo per iniziare la nostra collaborazione, la prima tranche necessaria per rafforzare il Movimento (Nuovo Senso Civico ) e trasformarlo in uno strumento molto più forte e organizzato per mandare a casa una classe politica miserrima fatta di personaggi avidi, corrotti, corruttori ed ignoranti.

Il pranzo si concluse praticamente lì perché Puffo si alzò con la seconda bottiglia di Pecorino appena iniziata, senza dolce, caffè e ammazza caffè. Gli avrei voluto dire che io avevo iniziato a fare filmini contro e non per il petrolio abruzzese dopo avere sentito una conferenza di quell'invasata de americana e che questa storia del petrolio in qualche modo aveva cambiato la mia vita ed il senso del mio vivere in Abruzzo, ma non ne ho avuto il tempo. Ho però avuto la freddezza di richiamarlo quando era già alla porta per dirgli che non avevo nessuna intenzione di pagare quel conto: vederlo tornare furente e impacciato verso la cassa, con il ristorante piombato nel silenzio, mi sprigionò una malcelata gioia infantile.

Penso spesso a quella bottiglia di Pecorino di Pasetti pressoché intera ed abbandonata sulla tavola e penso anche a questa storia molto abruzzese perché io un bel filmino sull'Abruzzo in particolare sulla sua classe politica lo vorrei proprio fare.
E magari un giorno o l'altro lo farò, e questo non è un sogno, è una minaccia.

sabato 4 dicembre 2010

LA FUNZIONE DEI MENTORS



L'Afghanistan dei taliban che il mondo civile si è ripreso con le armi di Enduring Freedom, non era uno stato ma un territorio in balia di un'interpretazione restrittiva della shari'a, applicata con estrema crudeltà e che nella sua visione politica sostituiva qualsiasi altra forma di struttura amministrativa, giuridica, sociale e militare.


Subito dopo la loya jirga, la Grande Assemblea  delle tribù afghane, che portò alla formazione del governo provvisorio di Hamid Karzai, nacque la necessità di creare un corpo di polizia che, secondo i canoni dei Lander tedeschi, potesse riprendere il controllo amministrativo e giuridico delle province. L’organizzazione e l’addestramento di questo corpo di polizia infatti fu affidato sino al 2007 proprio alla Germania.

Ben presto risultò chiaro quanto una simile struttura fosse insufficiente a combattere tanto il narcotraffico quanto lo spietato terrore che gli insorgenti continuano tuttora a riservare a tutti coloro che ritengono rei di dialogare con gli infedeli. 
Gli insorgenti individuarono il punto debole dello schieramento del nuovo governo repubblicano proprio nella polizia di ordinamento tedesco, non adeguatamente preparata a condurre vere azioni militari, che dal gennaio 2007 al settembre del 2008 perse ben 1165 uomini, a confronto dei 420 del nascente esercito afghano.  

Era a quel punto evidente che l’unica strada per normalizzare il territorio e far rientrare al più presto a casa i contingenti della coalizione NATO era quella di accelerare la costituzione di un esercito efficiente e motivato, a cui delegare progressivamente le azioni militari ed un controllo reale del territorio e dei confini.
Impresa assai complicata.
La struttura sociale afghana è infatti basata da secoli su ferrei concetti di censo e casta, all’interno dei quali, per esempio, era praticamente improponibile che un Hazara potesse dare un ordine ad un Pashtun.
Forse anche per questo, nonostante una plurisecolare storia di guerre anche vittoriose ma sempre condotte a livello tribale, l'Afghanistan sino alla metà del secolo scorso non aveva un vero e proprio esercito nel senso istituzionale del termine.
Il primo ministro dell'epoca, Mohammad  Daoud Khan cognato del re Zahir Shah e come lui Pashtun, negli anni '50 si rivolse all'Unione Sovietica per la costituzione di un esercito afghano con lo scopo dichiarato di riconquistare militarmente i territori tribali pashtun rimasti all'interno dei confini del neocostituito Pakistan, disegnati nel 1947 dagli inglesi al momento della scissione con l'India.

Da quel momento l'esercito afghano divenne protagonista nella storia sociale e politica afghana che, dopo la sconfitta dell'Armata Rossa, ne ha seguito il travaglio per poi letteralmente evaporare nel corso del regime talebano.

In questo scenario si inserisce il progetto degli OMLT:
trasferire nel più breve tempo possibile il controllo del territorio dalle forze armate ISAF all'Afghanistan National Army (ANA), com'è stato ribadito nel corso dell'ultimo Summit della Nato a Lisbona, 19 e 20 novembre 2010. In questi due giorni è stato evidenziato come l'azione militare della coalizione in Afghanistan sia transitoria e propedeutica al trasferimento all'ANA delle necessarie competenze di controllo e gestione del territorio, portando a 170 mila elementi la consistenza delle forze armate afghane. Tutto questo rispettando le attuali quote etniche che prevedono il 44% di pashtun, il 31% di tagiki, l'11% di hazara, il 9% di uzbeki e il 5% di militari provenienti da altri gruppi minori.


In termini pratici significa insistere sull'organizzazione e l'addestramento di un esercito di 170 mila soldati che, rispettando la rappresentatività del popolo afghano, sia leale nei confronti del governo e in grado di condurre operazioni militari, inizialmente insieme alle forze armate occidentali e poi in totale autonomia.
La nascente forza afghana è stata così divisa in 5 Corpi d'Armata ognuno dei quali inserito in una delle 5 aree militari in cui è diviso L'Afghanistan.

L'Italia, che ad Herat ha il comando del settore occidentale (Regional Command-West) costituito da militari di una dozzina di nazioni, ha tra gli altri compiti quello di “mentorizzare” il 207° Corpo d'Armata Afghano. 
Ma cosa fanno esattamente i mentors italiani, quanti e soprattutto chi sono?
Il compito degli OMLT è quello di insegnare (teach), guidare (coach) e supervisionare (mentor) il personale dell’ANA nella pianificazione, organizzazione ed esecuzione sia delle attività addestrative che operative sul campo; il detto popolare "armiamoci e partite" in questo caso è diventato "ci stiamo armando per partire insieme".
Per questo i Mentors non solo affiancano i loro pari grado durante la fase addestrativa e gestionale, ma sono al loro fianco anche durante le azioni di combattimento sul campo.


Il colonnello degli Alpini Silvio Zagli è il comandante dell'OMLT del Regional Command West con base a Camp Stone, quaranta chilometri da Herat.
Alle sue dipendenze ci sono per il momento circa 300 soldati tra italiani, spagnoli e americani che, in base alla nuova strategia della NATO dovrebbero diventare 400 nei prossimi mesi.
Negli OMLT sono presenti militari di tutte le specialità dell'Esercito che, se dotati dei requisiti previsti, prima di partire devono seguire numerosi corsi di aggiornamento e formazione.
In Italia il compito di formazione dei mentors è demandato al Centro Addestramento Alpino di Aosta propedeutico ad un ulteriore periodo presso il Joint Multinationational Readiness Center di Hohenfels in Germania, dove si svolgono lezioni relative al Military Decision Making Process e attività pratiche sul campo quali convoy operation, search, hambush e altre tattiche di condotta.

Questa è la prima volta che le Forze Armate Italiane sono chiamate a svolgere un tale compito ed i nostri militari considerano questa esperienza esaltante ed unica nonostante l'impegno veramente gravoso ed i rischi a cui sono esposti.
L'attività operativa dei mentors non è certo facile, perché innanzitutto devono capire la mentalità dei soldati afghani senza peraltro tentare di modificarne tradizioni e usanze e soprattutto evitando di cadere in una facile contrapposizione tra il mondo occidentale e quello orientale.

Insieme al colonnello Pierpaolo Lamacchia, ufficiale addetto ai contatti con la stampa, ho avuto occasione di intervistare a Camp Stone il Generale Jalandar Sha Behnam comandante in capo del 207° Corpo d'Armata Afghano:
"Molti sono i cambiamenti, da quando sono incominciate le attività ISAF in Afghanistan...
...i Talebani erano una minaccia per il Governo e la società, ed il popolo non aveva diritti. ISAF ha aiutato il Parlamento ed il Governo, rafforzando la sicurezza nel Paese e incominciando a creare nel popolo una certa stabilità e fede nei propri diritti.
Il lavoro compiuto a fianco della Task Force italiana dà ottimi risultati: afghani ed italiani rappresentano un Team in cui le due componenti sono molto legate e affiatate.
Per noi inoltre è una cosa gratificante vedere come le varie etnie, Tagiki e Pashtun soprattutto, che prima si contrastavano, ora, nell'ANA, trovano il luogo d'incontro per contribuire alla crescita e al rafforzamento del proprio Paese".

Ho poi assistito ad un'esercitazione di un battaglione di artiglieria afghano mentorizzato dai militari italiani, ancora dotato di vecchi obici sovietici ed eterogeneo per quanto riguarda l'età dei suoi componenti ed il loro livello di preparazione e scolarizzazione.
E' stata un'esperienza molto positiva, direi quasi gratificante per il mio nazionalismo, vedere la professionalità e l'autorevolezza dei nostri militari all'opera nonostante le difficoltà ed il disagio di vivere per un anno lontano da casa all'interno di un campo militare in perenne stato di allarme affrontando problemi di tutti i generi,  compreso il problema della lingua: infatti tutte le comunicazioni verso gli afghani avvengono tramite un interprete che traduce dall'inglese al pashto o al dari perché non ci sono interpreti che conoscono l'italiano, per questo motivo tutti i nostri soldati hanno acquisito un'adeguata conoscenza dell'inglese, di fatto lingua ufficiale della Nato.
Inoltre gli armamenti afghani sono in gran parte ancora provenienti dagli arsenali sovietici e per quanto robusti ed essenziali sono ormai obsoleti e notevolmente diversi da quelli occidentali, anche nell'impiego e privi ormai di manualistica e pezzi di ricambio.

La 1a Brigata del 207° Corpo d'Armata afghano è stato il primo reparto addestrato dagli OMLT italiani ad ottenere la certificazione che rende la Brigata idonea ad operare in autonomia sia in termini di combattimento che di sostegno logistico.
Un grande successo per la NATO ma anche per l'Italia.
Proprio per questi risultati la NATO ha deciso di continuare a sostenere i notevoli costi economici relativi a questo progetto e di procrastinare al 2014 il ritiro del grosso delle truppe, ribadendo così il concetto che il compito delle truppe NATO non è di perseguire una vittoria militare sul campo quanto creare i parametri di sicurezza indispensabili per lo sviluppo economico e sociale.


Oltre ai mentors dell'Esercito in Afghanistan opera una task force della Guardia di Finanza, denominata Grifo, per la costituzione di una polizia di frontiera e un nutrito nucleo di Carabinieri che hanno sinora addestrato oltre 4000 membri della polizia afghana ricevendo per questo pubblici complimenti dallo stesso generale statunitense David H. Petraeus, comandante in capo di tutte le forze armate presenti in Afghanistan.

Dopo un anno di collaborazione,  tra i mentors ed i mentorizzati, si creano rapporti di stima e anche di amicizia rafforzati dal fatto che condividono insieme i rischi delle missioni sul campo.
Al momento in Afghanistan le forze armate e di polizia sono le uniche istituzioni presenti capillarmente su quasi tutto il territorio con compiti che travalicano quelli tipici dei militari.
La possibilità di far parte delle forze armate o della polizia è inoltre per i giovani afghani una grande possibilità di crescita sociale e di sicurezza economica. Anche su questi elementi si basa la strategia della coalizione.

La storia afghana ci insegna come la mitologia, nata nell'antichità per rispondere attraverso simboli universali ai perenni dubbi dell'uomo possa essere d'aiuto a ridisegnare il futuro di un popolo in difficoltà da troppi anni. 
Certo, tutto questo per l'Occidente significa accettare grandi costi finanziari e l'eventualità di perdere sul campo altre giovani vite di soldati; l'alternativa è l'indifferenza.

Antonello Tiracchia
(in redazione Francesca Vinciguerra)

 


martedì 30 novembre 2010

PILLOLE DI SAGGEZZA

Ricevo da un mio caro amico questa parabola del Dalai Lama.

 


Hanno chiesto al Dalai Lama:
"Cosa l'ha sorpresa di più sull'umanità?" 
E lui ha risposto:
"Gli uomini, perché perdono la salute per fare i soldi e perdono i soldi per recuperare la salute. 
Perché pensano con tanta ansia al futuro che si dimenticano di vivere il presente, in tale maniera non riescono a vivere né il presente e neppure il futuro.
Perché vivono come se non dovessero morire mai e perché muoiono come se non avessero mai vissuto.
Perché vivono come poveri per poi morire ricchi."



sabato 13 novembre 2010

LE MOGLI AFGHANE TROVANO UN'ARDENTE VIA D'USCITA

Ricevo da Enrica Garzilli del Gruppo "AM_AfPak" questo articolo pubblicato il 7 novembre su The New York Times e dedicato alla triste realtà delle donne afghane di Herat, dove la  Cooperazione Italiana Allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, ha finanziato la costruzione dell'ospedale a cui si fa riferimento nel testo.
L'articolo è di Alissa Johannsen Rubin

La traduzione e l'adattamento di Francesca Vinciguerra

 

HERAT, Afghanistan  

Persino le famiglie più povere in Afghanistan hanno fiammiferi e combustibile per cucinare, combinazione che permette la vita, ma che  può anche diventare il mezzo per un'orribile via d'uscita: dalla povertà, dai matrimoni forzati, dall'abuso e dallo sconforto che spesso sono il destino delle donne afghane.

La notte prima di darsi fuoco Gul Zada portò i suoi figli a casa della sorella, per una festa in famiglia. Tutto sembrava andar bene. Più tardi venne fuori che lei non aveva comprato un regalo e che un parente l'aveva rimproverata per questo, dice suo figlio Juma Gul.

Apparentemente fu questa piccola situazione a farla crollare. Zama, che allora aveva 45 anni, madre di sei figli, e che guadagnava qualcosa pulendo piccole case, arrivò all'ospedale di Herat con ustioni su quasi il 60 % della superficie corporea. Sopravvivere è difficile, anche con il 40% del corpo sano.

Era bruciata dalla testa ai piedi.” Ricorda suo figlio.

Questo ospedale è l'unico centro medico in Afghanistan che tratta nello specifico vittime di ustioni, forma di suicidio comune in questa regione, anche perché gli strumenti per farlo sono così prontamente disponibili. Dai primi di ottobre di quest’anno 75 donne sono arrivate con ustioni - la maggior parte auto inflitte, altre che cercavano di apparire come tali – quasi il 30% in più dell'anno passato.

Ma i numeri raccontano meno delle storie delle pazienti.

Qui è motivo di vergogna ammettere che si hanno problemi all'interno della famiglia e spesso le  infermità mentali non sono diagnosticate o non vengono trattate.
Lo staff ospedaliero dice che probabilmente Zada soffriva di depressione. Le scelte per le donne afghane sono terribilmente limitate. La famiglia è la loro vita. Per loro ci sono pochissime possibilità di avere un’educazione o di scegliere chi dovranno sposare, ma nessuna possibilità di decidere il proprio ruolo all'interno della propria casa. Il loro compito primario è di servire il marito. Fuori da questo mondo sono delle emarginate.

Se scappi di casa puoi essere rapita, oppure messa in prigione e rimandata a casa. Allora cosa sarà di te?” si domanda Rachel Reid, una ricercatrice per Human Rights Watch, che si interessa  della violenza sulle donne. Le donne che tornano a casa vengono spesso picchiate o uccise per omicidi d'onore, poiché la famiglia teme che abbiano passato con un uomo il tempo in cui non erano accompagnate.  Le donne e le ragazze sono tuttora lapidate fino alla morte. Quelle che bruciano e sopravvivono sono condannate ad un'esistenza da Cenerentola, mentre i loro mariti sposano altre donne, donne sane.

La violenza sulle donne afghane viene da ovunque: dal padre, dal fratello, dal proprio marito, o dal suocero, dalla suocera o dalla cognata.” dice la dottoressa Shafiqa Eanin, chirurgo plastico all'ospedale di Herat, che normalmente ha dieci casi di donne ustionate per volta.

I più macabri casi di ustioni sono gli omicidi mascherati da suicidi, dicono i dottori, gli infermieri e coloro che si occupano di diritti umani.

Proprio ora abbiamo qui due donne a cui è stato dato fuoco dalle suocere e dai mariti.”, dice il dottor Arif Jalali, il capo chirurgo dell'ospedale.

I dottori citano recenti casi in cui le donne dopo essere state picchiate dai loro mariti o dai loro suoceri, hanno perso conoscenza, si sono svegliate all'ospedale e si sono ritrovate bruciate perché spinte a forza nel forno o sui fornelli.

Per un numero veramente piccolo di donne che sopravvivono alle ustioni, sia che se le siano inflitte da sole, sia che siano state loro provocate, l'esperienza è un tragico passaggio che le aiuta a cambiare vita. Alcune di loro collaborano con avvocati consigliati dall'ospedale e chiedono il divorzio. Altre no.

Avvilita e sfrontata
Fotografia di Lynsey Addario per The New York Times
Farzana, a sinistra, all'ospedale per ustioni di Herat con la madre. Lei si diede fuoco quando suo suocero la spinse  a farlo

Chiesta in moglie a 8 anni - e sposata a 12 - Farzana si dà fuoco dopo che suo suocero la sminuisce, dicendo che non avrebbe avuto il coraggio di farlo. Aveva 17 anni e da allora subisce abusi da suo marito e dalla sua famiglia.

Farzana, sentendosi avvilita con un atto di sfida va nel giardino e consegna sua figlia di nove mesi al marito, perché non veda la madre bruciare. Quindi si versa addosso il combustibile per cucinare.

Mi sentivo così triste, avevo tanto dolore nel mio cuore, ed ero così arrabbiata con mio marito e i suoi genitori che presi i fiammiferi e mi diedi fuoco.”

Quella di Farzana è la tipica storia di disperazione a cui conducono le angherie inflitte dai suoceri alle mogli dei loro figli. Le statistiche delle Nazioni Unite indicano che almeno il 45% delle donne afghane si sposano prima dei 18 anni; una larga percentuale prima dei 16. Molte ragazze sono date in moglie come pagamento di debiti, il che le condanna ad una vita di servitù e nella maggior parte dei casi di abusi.

Farzana era una brillante bambina che aveva sognato di diventare maestra, amando la poesia e il linguaggio di Dari. Ma venne promessa in matrimonio al figlio della famiglia che stava provvedendo a trovare una moglie per suo fratello e quando ebbe 12 anni i suoceri insistettero che era tempo di sposarsi. Il suo futuro marito aveva appena compiuto 14 anni.

Il giorno del matrimonio mi picchiò quando mi svegliai, e mi urlò contro.” racconta favoriva sempre sua madre, e usava brutte parole quando parlava di me.”

Il pestaggio andò avanti per quattro anni, poi il fratello di Farzana prese in sposa una seconda moglie, oltraggio per i genitori di suo marito. I maltrattamenti peggiorarono. Le impedirono di vedere sua madre e il maritò cominciò a picchiarla più spesso.

Ho pensato di fuggire di casa, ma poi mi son detta: cosa accadrebbe al nome della mia famiglia?” racconta ancora “Nessuna ha mai chiesto il divorzio, come potrei essere la prima?”.

I dottori e le infermiere dicono che specialmente nei casi che coinvolgono le ragazze più giovani, la sensazione di sentirsi in trappola e il desiderio di disonorare i propri mariti nell'ambito del loro controllo, fa esplodere la loro rabbia.

Questa è la verità di Farzana.

La cosa che mi ha convinto a darmi fuoco è stata l'affermazione di mio suocero: non hai il coraggio di farlo.” Continua.

Ma lo ha fatto, e quando le fiamme si sono spente il 58% per cento del suo corpo era ustionato. Quando un parente spinge a forza il suo corpo nella macchina, il marito dice: ”Se nessuno te lo chiede, non fare il mio nome. Dì che non c'entro niente”.

Dopo 57 giorni di ospedale e continui trapianti di pelle, Farzana è di nuovo a casa con sua madre e lacerata tra le tradizioni familiari e la sensazione che si ha bisogno di un nuovo modo di pensare.

La figlia di Farzana è cresciuta dalla famiglia del marito, madre e figlia non hanno il permesso di vedersi. Nonostante questo lei dice di non poter tornare indietro in casa del marito.

Ho passato cinque anni in quella casa, con quelle persone” dice “il mio matrimonio era per altri. Non avrebbero mai dovuto forzarmi in un matrimonio da bambina.”

Pensiero comune

Perché le donne si danno fuoco piuttosto che scegliere altre forme di suicidio?

Una ragione è la povertà, spiega il dottor Jalali. Molte donne, sbagliando, pensano che la morte sia istantanea. Halima, di 20 anni, paziente nell'ospedale in agosto, racconta di aver considerato l'ipotesi di gettarsi dal tetto, ma era preoccupata di riuscire solo a rompersi una gamba. Se si fosse data fuoco invece “sarebbe tutto finito”.

Questo tipo di suicidio è più comune ad Herat e nell'Afghanistan occidentale che in altre parti del paese. La vicinanza dell'area all'Iran forse può spiegarne il motivo. In Iran infatti è molto diffuso questo tipo di suicidio.

Diversamente da altre donne ricoverate nell'ospedale, Zada non mostrava segni esteriori di depressione prima di darsi fuoco. La sua vita, comunque, era difficile. Suo marito è un mezzadro. Durante il giorno lei puliva le abitazioni altrui e la notte rimaneva sveglia per pulire la propria, lavoro quasi impossibile nelle due misere camere di terra e mattoni sferzate dai venti di Herat, che portano un nuovo strato di polvere ad ogni aprire di porta.

Per la famiglia, lei doveva provvedere a tutto, costantemente. “Prima di poter solo pensare di volere qualcosa, lei me l'aveva già procurata.” ricorda Juma Gul, suo figlio più anziano, di 32 anni, lavoratore che guadagna all'incirca $140 al mese. “Cuciva i nostri vestiti cosicché non pensassimo di averne meno di altri.

Mentre parla, le sue due sorelle gemelle di 10 anni sono sedute accanto a lui con in mano una foto della loro madre.

All'ospedale in un primo momento Zada aveva dato segno di riprendersi, e Juma era incoraggiato, ignaro di quanto potesse esser difficile sopravvivere con ustioni così estese. Questo è vero soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dice il dottor Robert Sheridan, principale della chirurgia allo Shriners Burn Hospital di Boston e chirurgo traumatologo al Massachusetts General Hospital.

Il rischio più grande è la sepsi, un'infezione mortale che spesso comincia dalla seconda settimana dopo l'ustione, ed è difficile da fermare, dice il dottor Sheridan. Anche gli ustionati peggiori e i pazienti infetti possono parlare nell'ora vicina alla loro morte, e questo dà false speranze ai parenti.

Lei stava migliorando” insiste suo figlio.

Ma l'infezione infatti era penetrata, e la famiglia non aveva il denaro per antibiotici più potenti che le potessero garantire anche la più piccola speranza di sopravvivenza. Juma Gul infine pensò di poter raccattare il denaro mendicando, ma non prima che l'infezione si propagasse.
Due settimane dopo che sua madre si era data alle fiamme, Juma  era al suo fianco quando lei smise di respirare.


martedì 26 ottobre 2010

THE ITALIANS MAKE IT BETTER



Ricevo da un mio amico questo pezzo di fanta-cronaca basato sulla storia a buon fine dei minatori cileni.

Se fosse successo in una miniera italiana, le cose sarebbero andate così:

  • 1° giorno:  tutti uniti per salvare i minatori, diretta tv 24h, Bertolaso sul posto. 
  • 2° giorno:   da Bruno Vespa plastico della miniera, con Barbara Palombelli, Belen e Lele Mora. 
  • 3° giorno:   prime difficoltà, ricerca dei colpevoli e delle responsabilità: 
BERLUSCONI: colpa dei comunisti;                   

DI PIETRO: colpa del conflitto d'interessi;
                 
BERSANI: ...  ... dove, quando... ma che cosa è successo?
                 
BOSSI: sono tutti terroni, lasciateli là;
                  
CAPEZZONE: non è una tragedia è una grande opportunità ed è merito di questo governo e di questo premier;
                  
FINI: mio cognato non c'entra, era a Montecarlo con la sua Ferrari insieme ad una gnocca;

  • 4° giorno: TOTTI dedicherò un gol a tutti i minatori; 
  • 5° giorno: IL PAPA faciamo prekiera a i minatori ke in     qvesti ciorni zono vicini al tiavolo!!! 
  • 6° giorno: cala l'audience, una finestra in "Chi l'ha visto?" e da Barbara d'Urso che intervista i figli dei minatori "Dimmi, ti manca papà?" 
  • dal 7° al 15esimo giorno: tutti i telegiornali ed i talk show parlano dell'argomento, intervistano padri, madri, amanti, figli mettendo in piazza ogni aspetto della vita dei malcapitati;
  • il 16° giorno la Lazio perde in casa con il Parma per colpa del portiere originario del Burkina Faso - pagato 1 milione di euro al kg - che invece di parare cercava di scaccolarsi il naso con i guanti e la notizia della miniera scompare per incanto da tutti i media;
  • Falliscono tutti i tentativi di Bertolaso, che viene nominato così capo mondiale della protezione civile e si trasferisce direttamente dal campo soccorso della miniera a Ginevra;
  • Dopo un mese i minatori escono dalla miniera per fatti loro nel più totale disinteresse, scavando con le mani;
  • Un anno dopo, i 33 minatori, già licenziati, vengono incriminati per danneggiamento del sito minerario;
  • Uno di loro partecipa al Grande Fratello ed un altro diventa ospite fisso al Festival di Sanremo;
  • Gli altri si arrabattano;
THE ITALIANS MAKE IT BETTER!

sabato 23 ottobre 2010

SPORCO NO E NEPPURE FASCISTA


Ho ricevuto pochissime email i cui utenti mi chiedevano, devo dire quasi sempre in modo corretto,  di essere cancellati dal mio data base e poi, tra le molte di sostegno, due che  meritano un commento.
In una di queste, riferita al post Bombe, Bugie e Costituzione, venivo definito un catto-comunista imbecille ed in cui  l'autore ci teneva a sottolineare che lui era uno sbattezzato che leggeva Limes e che era inutile qualsiasi confronto con me perché sarebbe stato un dialogo tra sordi, sbagliando.
Sarebbe un dialogo tra un sordo che è tale per una visone dogmatica delle cose (lui) ed ed uno che è disposto ad ascoltare (io). Perché il dogma,come espressione di ignoranza e di intolleranza dialettica, è l'humus dell'integralismo che a quanto pare è presente anche in alcuni sbattezzati.
La nostra è l'epoca dell'emulazione, da cui il successo di pestilenze televisive come per esempio Amici e Il Grande Fratello: sono un nessuno ma poiché mi atteggio penso di essere qualcuno!
Così capita che una moltitudine di ignoranti guardando i talk show  o sillabando i testi di personaggi di reali capacità letterarie e giornalistiche, come per esempio Travaglio o Saviano, si atteggino a opinionisti.
Come lo sbattezzato dogmatico di cui sopra che parla in modo saccente di cose che ignora; in pratica è come uno che parla di sesso senza avere mai scopato!
In un'altra email, molto più interessante, vengo definito sporco fascista.
Parlare troppo di se stessi credo sia una caduta di stile ma essere definito sporco non mi piace perché non corrisponde a verità. Sono un igienista quasi maniacale, evito se posso i bar ed i ristoranti e se costretto controllo sempre i servizi igienici e allungo il collo verso la cucina,  negli autogrill poi compro solo gelati, acqua minerale e biscotti perché le cose buone sono anche pulite e gli autogrill, loro si, come le stazioni e gli aeroporti sanno proprio di sporco.
Non mi piace neppure essere definito fascista, e neppure cattolico e tanto meno comunista.
Rinvio sine die  il mio pensiero su il cattolicesimo ed il comunismo che sicuramente non interessa nessuno, ma mi sento in dovere di elencare seppure sinteticamente alcuni punti che mi hanno spinto a prendere le distanze dal fascismo.
I Savoia con la breccia di Porta Pia costruirono di fatto uno Stato laico.
Mussolini con i Patti Lateranensi ha trasformato l'Italia in uno Stato confessionale, creando una serie di problemi che ancora oggi si fanno sentire sul piano politico e del costume in genere.
Dai Patti Lateranensi scaturirono una successione di fatti tra cui per esempio la messa al bando della Massoneria, presente in tutti i paesi democratici e liberali ma invisa alla Chiesa Cattolica,  l'attuazione delle leggi razziali e l'avvicinamento alla Germania nazista.
Agli occhi del pontificato di Pio XII  (che era stato Nunzio Apostolico proprio in Germania) il nazismo era il castigatore degli ebrei e del sistema politico democratico di derivazione anglosassone, animato dai calvinisti e dalla chiesa anglicana.
L'entrata in guerra è stata per il fascismo la ciliegina sulla torta di una visione pressapochista della politica internazionale: le guerre vanno evitate ma se poi, per qualsiasi motivo, un governo decide di farle deve essere nelle condizioni di vincerle.
Sicuramente oltre ai Patti Lateranensi, alle leggi razziali e all'entrata in guerra il fascismo ha combinato qualche cosa di buono ma quando il palazzo crolla si porta appresso tutto; è la dura legge della vita e della storia, è accaduto anche per il nazismo e poi per il comunismo sovietico.
Per il comunismo cinese, sostenuto da una conduzione capitalista dell'economia, sembra che ci vorrà ancora del tempo.
Ci sono anche altri aspetti che non mi vanno giù. L'antica Roma ha steso le basi della Civiltà Occidentale moderna ma il fascismo ne ha usurpato il simbolismo e così se uno parla bene dell'antica Roma passa per fascista.
Lo stesso vale per le Forze Armate in genere, mandate in guerra allo sbaraglio verso una rovinosa sconfitta annunciata da una visone della politica estera da operetta.
Nonostante questo i nostri soldati si sono quasi sempre comportati civilmente e battuti da eroi, in azioni ancora oggi ridimensionate o ignorate da  una parte dell'opinione pubblica .
Infine, cosa ancora più grave, il fascismo ha prodotto con i suoi errori le piaghe della guerra civile che non si sono ancora rimarginate.
Tendenzialmente sono agnostico e amo profondamente la Civiltà Occidentale, anche nelle sue discrepanze che comunque sono l'espressione di un concetto di libertà e tolleranza che non esiste in nessun'altra parte del mondo.
Ho grande stima per alcuni uomini che hanno combattuto per la Repubblica Sociale e per alcuni uomini che hanno combattuto contro la Repubblica Sociale.
Disprezzo i mascalzoni, i traditori ed i corrotti in quanto tali.
Sono anche stupidista, nel senso che disprezzo gli stupidi ed i qualunquisti, perché la stupidità e l'ignoranza generano l'indifferenza, che è il cancro dell'anima (o, per gli sbattezzati dogmatici, dello spirito).

lunedì 18 ottobre 2010

BOMBE, BUGIE E COSTITUZIONE


L'Articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana è uno dei più citati ma probabilmente anche il meno letto. Nonostante sia assai breve non è proprio facilissimo comprenderne il senso, perché quando fu stilato le macerie della guerra erano ancora fumanti e gli occhi degli italiani gonfi di pianto.
Ecco cosa hanno scritto i Padri Fondatori della nostra Repubblica a proposito della guerra:

Art. 11.

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L'Italia è un alleato di rilievo della NATO e membro autorevole dell'ONU.
Pertanto, quando   - in condizione di parità con gli altri Stati - si delinea a livello internazionale la necessità di attivare un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni l'Italia si assume precise responsabilità a livello internazionale per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali - di cui è parte integrante a tutti gli effetti - rivolte a tale scopo.
In termini pratici vuol dire che quando si delineano questi presupposti - come per esempio è avvenuto per il Mozambico, la Somalia, Timor Est, il Kosovo, l'Afghanistan etc. -  il Governo  convoca lo Stato Maggiore a cui chiede di che cosa necessitino le Forze Armate per raggiungere gli obiettivi politici e strategici della missione, quindi convoca il Parlamento che valuterà le scelte dell'esecutivo ed approverà il piano di spesa.
Questa estrema semplificazione ci aiuta a capire che, se dopo anni di presenza in Afghanistan, l'attuale Governo sta ancora decidendo se armare o non armare i nostri cacciabombardieri per supportare e  proteggere le nostre truppe a terra e non certo per colpire obiettivi civili, strategici o militari, è la prova che qualche cosa in questo complesso processo istituzionale non ha funzionato.
O il Governo non ha saputo spiegare allo Stato Maggiore quali erano le aspettative della missione o lo Stato Maggiore ha sottovalutato il problema.
Nessuna di queste due ipotesi è vera.
La realtà è che in Italia si ha la tendenza a cambiare il nome delle cose nel tentativo un po meschino di comunicare all'opinione pubblica un messaggio falso ma  politicamente corretto
I nostri soldati, nell'immaginario dei nostri politici, non sparano, distribuiscono nutella, devono sempre sorridere con la mimetica ben lavata e stirata ed avere bambini in braccio.
Poi, durante un combattimento, accade che qualcuno muore e  all'improvviso si scopre che i nostri soldati non sono lì per fare le balie o distribuire caramelle e sorrisi; ma la cosa sorprendente è che l'opinione pubblica, nonostante la disinformazione e la censura, è apertamente schierata con nostri soldati che, non solo in Afghanistan, fanno un lavoro egregio perseguendo con riconosciuta professionalità l'obiettivo della missione che prevede anche azioni militari. 
Gli italiani stanno prendendo atto che, in Afghanistan, i loro militari stanno riscattando sul campo, con le armi, un'immagine di viltà ed incapacità militare dell'Italia che negli anni passati era stata costruita ad arte, travisando la storia ed i fatti.


Proprio per non innescare problemi di politica interna i governi hanno sempre rilasciato ai comandi militari impegnati in missioni all'estero una delega parziale, arrogandosi il diritto di decidere anche sotto il profilo puramente tattico e questa è una grave anomalia che di fatto spunta la lancia del nostro dispositivo militare che oltretutto viene così esposto a rischi maggiori.


Questo consolidato atteggiamento cautelare è stato sempre usato per evitare che le nostre missioni di peace keeping e peace enforcement potessero essere identificate dall'opinione pubblica come atti di guerra. 

Ma come sempre avviene il Popolo è sempre più avanti del Palazzo e, come molti articoli e servizi radiotelevisivi dimostrano, è sempre più consapevole  dell'importanza della missione in Afghanistan e dei suoi rischi.
Questo atteggiamento ambiguo e dequalificante di disinformazione o informazione edulcorata è stato seguito da tutti i governi  della Repubblica coinvolti  in missioni di peace keeping e peace enforcement o di vera guerra, come i bombardamenti  in Iraq durante la Guerra del Golfo e successivamente in Serbia; atteggiamento difficile da definire senza sgradevoli aggettivi e che pone seri dubbi sulla coscienza democratica della nostra classe politica.


I tragici eventi delle ultime settimane  hanno aperto un acceso dibattito tra i parlamentari che - è bene ricordarlo - nella finanziaria hanno votando tutti a favore del rifinanziamento della nostra partecipazione alla coalizione ISAF con l'unico voto contrario dell'IDV, contrario non per motivi legati alla missione ma per miserevoli calcoli di politica interna.


Gli Italiani nonostante la disinformazione su tutto ciò che riguarda il  mondo militare ed in genere la politica internazionale stanno riscoprendo una coscienza nazionale e chiedono che i nostri soldati siano messi in condizione di difendersi, non solo dai talebani ma anche dall'ambigua politica del baratto: " armeremo i nostri aerei ma ce ne andremo nel 2011!"


Il Governo deve innanzitutto chiarire senza remore  perché siamo presenti in Afghanistan ed evitare di stabilire una data di rientro prima del raggiungimento dello scopo principale della missione, perché così facendo mette i nostri militari in una condizione di pericolo e, soprattutto, rende vana la morte di coloro che  hanno tenuto fede al giuramento che i soldati fanno al Presidente della Repubblica come custode dei Valori dello Stato. 
Il giuramento(*) dei soldati è qualche cosa di diverso da un contratto civile, non solo per la solennità della cerimonia ma perché, tra i meandri delle parole, il militare pone la sua vita al servizio dei Valori fondanti della Repubblica.


Per la prima volta, in questi giorni, seppure con molti distinguo e  con la voce ancora fioca si sente dire che in Afghanistan si combatte e si muore non solo per aiutare il popolo afghano,  martoriato dalla spietata follia dell'integralismo islamico, ma anche per difendere questi Valori, comuni a tutto l'Occidente.
E' importante che si incominci a capire che l'Afghanistan è l'ultima trincea per evitare che il campo di battaglia di quella che ormai è a tutti gli effetti una guerra globale contro l'Occidente, per quanto  asimmetrica, si allarghi alle nostre città che probabilmente già nascondono terroristi pronti ad intervenire.


I parlamentari devono abituarsi a rispettare i loro datori di lavoro (cioè tutti noi, semplici cittadini, che paghiamo loro un lauto stipendio) dandoci, anche  in questo caso, informazioni precise sul perché delle nostre missioni militari all'estero e chiamando le cose con il vero nome. 
I nostri soldati  al fronte potrebbero così raggiungere gli obiettivi assegnati con la consapevolezza di essere supportati pubblicamente dalla nazione e di poter usare gli strumenti adeguati al successo della missione e alla loro sicurezza.
Se ci fosse maggior chiarezza e coraggio civile la classe politica nel suo insieme godrebbe di una maggiore credibilità e stima da parte del Popolo, perché la disinformazione genera ignoranza e trasforma i cittadini in sudditi.


(*) In Italia la formula del giuramento militare è prevista attualmente all'art. 2 della Legge 11 luglio 1978, nr.382 «Norme di Principio sulla Disciplina Militare»; la formula, unica per tutti i cittadini italiani che rivestono lo status di militare, recita:
"Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana, di osservare la Costituzione e le leggi  e di adempiere con disciplina ed onore a tutti i doveri del mio stato per la difesa della Patria  e la salvaguardia delle libere istituzioni."
Il Giuramento è valido solo se avviene al cospetto della Bandiera della Repubblica, o se esiste della Bandiera di Guerra del Reparto e alla presenza del suo Comandante. 





lunedì 11 ottobre 2010

DISONESTI E POPULISTI: A CASA!



Ieri sera ho seguito lo Speciale TG1 condotto da Monica Maggioni e dedicato alla nostra partecipazione alla missione ISAF in Afghanistan.
Il Ministro della Difesa Ignazio La Russa ha parlato da uomo di Governo - e non solo del governo - dicendo le cose che un ministro dovrebbe dire, ed infatti le ha dette.
L'on. Francesco Rutelli mi ha colpito invece per la chiarezza ed il coraggio con cui ha esposto il suo pensiero in merito alla nostra partecipazione militare al conflitto afghano, chiarezza e coraggio politico che non è riuscito a trasmettere con il suo pur apprezzabile intervento il dott. Umberto Ranieri - non so in quale veste presente non avendo nessun incarico parlamentare o di governo - che ancora una volta ha confermato il pensiero contorto tipico di alcuni membri del PD ogni qualvolta devono parlare di cose che potrebbero essere sgradevoli ad una parte dei loro elettori. 
(Vi ricordate gli interventi di pacificazione in Serbia ed in Kosovo dell'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema? Interventi di pacificazione che si sono trasformati per incanto, ma nella più totale omertà politica, in quasi 3 mila missioni di bombardamento su obiettivi tuttora classificati.)
 
Mi è piaciuto infine l'intervento - purtroppo breve - di Gian Micalessin che tra i presenti, ministro La Russa compreso, è certamente quello che di Afghanistan ne sa più di tutti.

Mi ha invece letteralmente fatto inorridire l'On. Sonia Alfano di Italia dei Valori della quale sino a ieri ignoravo l'esistenza.
Purtroppo al Parlamento il voto di un "disonesto" e di un "populista incompetente" vale quanto quello di un parlamentare onesto e preparato
L'On. Sonia Alfano di IDV ieri sera non solo ha parlato di cose che ha dimostrato di ignorare ma per conquistare qualche voto tra gli orfanelli dell'estrema sinistra ha rimestato nel dolore come uno sciacallo tra i cadaveri.

Nel clima di maturità democratica in cui si è svolta la trasmissione l'On. Sonia Alfano con i suoi interventi meccanici ci ha trasportato come d'incanto in un mondo in cui il concetto di confronto politico si misura dal tintinnio delle manette e dalla lunghezza della corda con cui appendere gli avversari; possibilmente a testa in giù.



Nei prossimi anni - come contemplato dall'art. 8 della Costituzione, motivate dalle alleanze internazionali e sostenute dalla volontà popolare come nel caso appunto dell'Afghanistan - ci saranno altre missioni di peace enforcing e peace keeping e purtroppo è molto probabile che anche in queste missioni ci saranno altre vittime tra i nostri soldati. 

Il Governo attuale e quelli che si succederanno in futuro hanno pertanto il dovere istituzionale ancor prima che morale di mettere a disposizione dei nostri soldati gli strumenti adatti per fare in modo che possano operare con la massima efficacia ma sempre adeguatamente protetti.

Ma i Governi hanno anche il dovere di spiegare dettagliatamente alla Nazione, tramite il Parlamento, le motivazioni di scelte che per la loro stessa natura contemplano la dolorosa eventualità di perdere delle vite umane.

L'informazione è lo strumento più importante della democrazia perché può aiutare i cittadini a scegliere allontanando dall'emiciclo parlamentare non solo i disonesti ma anche gli incompetenti che a volte, come vili sciacalli, cercano di ottenere effimeri vantaggi politici speculando sulla morte dei nostri soldati caduti in azione.
(Antonello Tiracchia)


martedì 28 settembre 2010

GUERRE SGUERREGGIATE




Anche oggi dall'Afganistan arriva la notizia che lo scorso 25 settembre un drone, cioè un aereo senza pilota, avrebbe individuato il nascondiglio del capo di al Quaida in Afghanistan e Pakistan, l'egiziano Sheikh Fateh al-Misri, che sarebbe poi rimasto ucciso da un missile lanciato dallo stesso drone.
Sheikh Fateh al-Misri era considerato il successore di Mustafa Abu al-Yazir ucciso a sua volta da un missile lanciato da un Predator lo scorso maggio.

Il Predator è un aereo teleguidato (o UAV - unmanned aerial vehicle) prodotto dalla General Atomics, un'azienda americana che ha visto salire alle stelle le sue quotazioni in borsa proprio grazie a questo particolare velivolo.
Dotato di un motore a pistoni di poco più di 100 CV e nonostante le sue linee leggere il Predator è un velivolo sofisticato sotto il profilo aeronautico ed estremamente sofisticato per l'avionica e gli strumenti per la ricognizione.
Di fatto è un ricognitore teleguidato che, grazie ad un sistema data link satellitare, è in grado di eseguire ricognizioni a lungo raggio senza mettere in pericolo la vita di un equipaggio, volando a 7 mila metri di quota a 200 kmh per tempi lunghissimi che possono arrivare anche a 18 ore.

La caratteristica del Predator, nonostante la sua apparente fragilità, è che può essere armato con missili aria-terra Hellfire in grado di colpire con estrema precisione bersagli anche di piccole dimensioni.
HELLFIRE, letteralmente fuoco infernale, è l'acronimo di HELicopter Launced FIre and foRgEt missile (missile elilanciato spara e dimentica) dove spara e dimentica vuol dire che una volta inseriti via databus i parametri di puntamento il missile raggiunge il bersaglio grazie ad un sistema di navigazione e puntamento autonomo.
Il missile aria-terra Hellfire, dal peso do 50 chili, ha un costo di produzione relativamente basso ed è utilizzato da una ventina di forze armate, tra cui l'Italia; nato come arma controcarro viene costruito in numerose versioni e varianti.
In Afghanistan i missili Hellfire sono montati sui Predator della CIA che sino allo scorso anno aveva affidato alla Blackwater (ora Xe) - la più grande società di contractors del mondo, in pratica un vero esercito privato - il compito di gestire ed armare i drone dedicati alla individuazione e distruzione dei nascondigli dei capi talebani e alla loro eliminazione fisica.

L'uso dei Predator, insieme ad altri assetti militari sia terrestri che aerei, ha permesso la distruzione di nascondigli ben mimetizzati tra montagne altrimenti irraggiungibili, anche in territorio pakistano, e la conseguente eliminazione di numerosi insorgenti senza esporre le truppe speciali a grandi rischi altrimenti inevitabili.  
Come per esempio oggi, 28 settembre, che nel Waziristan del sud, in Pakistan, i missili di un Predator hanno eliminato quattro insorgenti  suscitando le ire di rito del governo pakistano che, più volte sollecitato, non ha mai intrapreso azioni militari concrete per eliminare le basi degli insorgenti all'interno dei suoi territori.

Purtroppo capita che durante queste azioni mirate rimangano coinvolte anche vittime civili sia perché i talebani sono soliti usare come rifugi abitazioni i cui abitanti, volenti o nolenti, vengono trasformati in scudi umani sia per altre casualità difficilmente prevedibili.


Oltre agli USA e alla Gran Bretagna anche la nostra Aeronautica Militare utilizza ormai da anni i Predator ed il nostro contingente in Afghanistan, all'interno della coalizione ISAF di base ad Herat, fa largo uso di questo velivolo che compie solo missioni di ricognizione, perché le direttive politiche imposte alle nostre Forze Armate non prevedono infatti il suo impiego con armi a bordo.


Questo perché in Afghanistan (e non solo) le nostre truppe agiscono sempre secondo dispositivi improntati alla massima cautela, proprio per evitare danni collaterali alla popolazione civile; danni che potrebbero annullare il complesso lavoro di cooperazione con le istituzioni civili locali e di affiancamento alle neo costituite forze armate afghane, attività queste che poi sono il vero scopo della missione ISAF.
Il risultato di questa scelta prudenziale è che non risultano casi di vittime civili ad opera di nostre azioni militari e dal fatto che le nostre truppe hanno avuto pochissime perdite in rapporto al numero di militari presenti in teatro - al terzo posto dopo  americani ed inglesi - nonostante l'impegno continuo e gravoso a cui sono sottoposte.



Pertanto quando all'alba del 17 settembre un Predator italiano ha inquadrato l'azione dei quattro insorgenti che piazzavano un IED ha fatto tutto quello che era in grado di fare: mandare le immagini ad Herat che ha allertato un gruppo tattico di Task Force 45* a bordo di un elicottero da trasporto CH47 scortato da due elicotteri da combattimento Mangusta. 
Durante questa operazione - come è ormai ben noto - è rimasto ucciso il capitano del Col Moschin Alessandro Romani mentre il Caporal Maggiore Elio Rapisarda, dello stesso reparto, è rimasto ferito.
Secondo indiscrezioni solo a quel punto i due Mangusta avrebbero neutralizzato il nucleo di fuoco talebano, che si era arroccato in un piccolo edificio, usando le armi di bordo (razzi, missili e un cannone a canne rotanti da 20 mm). Sempre secondo le stesse fonti l'edificio sarebbe stato distrutto e gli insorgenti uccisi; non sembra ci siano state vittime civili ma in quel frangente chi era in grado di accertarsi della presenza di civili in quell'edificio?
E' assai probabile che il Predator abbia filmato l'intera azione ma le immagin, se esistono, saranno sicuramente classificate per direttive ministeriali.


Come sarebbero andate le cose se il Predator della nostra Aeronautica Militare fosse stato armato? 
Non si può fare la storia con i se ma sicuramente si può simulare un altro scenario.
Nel momento stesso che inquadrava l'azione dei talebani con le sue telecamere ed i suoi sensori il Predator armato avrebbe potuto neutralizzarli all'istante ottenendo così lo stesso risultato per cui era stato inviato il nucleo operativo di Task Force 45 ma senza far correre ai nostri miliatri alcun rischio.


Il Predator armato di Hellfire avrebbe evitato l'attivazione di un dispositivo complesso e costoso costituito da un elicottero da trasporto CH47 con almeno 5 membri di equipaggio con a bordo un numero imprecisato di incursori e due Mangusta con quattro uomini; ma soprattutto l'azione avrebbe ottenuto lo stesso risultato senza esporre i nostri incursori e gli equipaggi degli elicotteri ai rischi connessi ad un intervento così pericoloso
Inoltre i talebani sarebbero stati eliminati in uno spazio aperto nello stesso momento che agivano, senza dare loro tempo di nascondersi nell'edificio ed organizzare, nel tempo intercorso tra la ricognizione e la messa in azione del dispositivo, quello che a tutti gli effetti sembra sia stato un agguato, utilizzando inoltre una possibile presenza di civili come scudo difensivo. 

Ma i nostri Predator non sono armati perché il Governo italiano teme la ricaduta negativa sotto il profilo politico e mediatico per eventuali vittime civili. Per lo stesso motivo i nostri aerei AMX compiono esclusivamente azioni di ricognizione e sono armati solo con il cannone da 20 mm. 
Pertanto nel caso una nostra pattuglia a terra avesse necessità di appoggio aereo per uscire fuori da qualche brutta situazione questo appoggio potrebbero darlo, come del resto sembra sia già avvenuto e se disponibili, aerei di altre forze armate della coalizione ISAF.
Insomma il nostro contingente in Afghanistan pur disponendo sul campo di mezzi idonei ad azioni militari a basso rischio e grande efficacia non li può usare per i caveat governativi, pur essendo la mission di ISAF  ben diversa da quella di Enduring Freedom che, ripetiamo, sistematicamente organizza per mandato ricevuto azioni per eliminare il maggior numero di leader talebani.
ISAF insieme alle forze armate afghane mira invece a mettere in sicurezza il territorio evitando per quanto possibile i combattimenti che, quando ci sono stati, hanno comunque visto i nostri soldati fare  il loro lavoro con grande capacità; per questo motivo durante le tipiche missioni del contingente ISAF le possibilità di coinvolgere dei civili sono decisamente ridotte rispetto alle missioni di Enduring Freedom.
Noi riteniamo che il compito principale del nostro governo dovrebbe essere quello di non esporre a rischi inutili i nostri militari dando loro la possibilità di utilizzare al meglio i mezzi in dotazione per rispettare il mandato internazionale ratificato dal nostro Parlamento, e proprio per gli obiettivi di questo mandato armare i nostri Predator e AMX non significherebbe automaticamente esporre i civili afghani a nuovi rischi.
E questo senza timore alcuno perché i nostri militari hanno sempre dimostrato nell'adempiere al loro dovere grande equilibrio e responsabilità.

 
(*)  Task Force 45 è il nome del nucleo dei reparti speciali italiani che
opera in Afghanistan, nucleo più volte citato nei comunicati ISAF per le sue capacità ed i suoi successi "segreti".
La missione in cui opera Task Force 45 si chiama "sarissa"  come la lunga lancia macedone. Il reparto è costituito da uomini provenienti dal 9° Rgt Col Moschin, dal Comsubin della MM, dagli Incursori dell'AM e dal GIS dei Carabinieri che operano insieme ai ranger degli alpini paracadutisti del Rgt. Montecervino. 
Per ovvi motivi le informazioni sulla consistenza di Task Force 45 e sulla loro attività sono classificate.