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domenica 27 febbraio 2011

SOMALIA. UNA GUERRA DIMENTICATA

QUANDO IL PACIFISMO NON DA' RITORNI DI IMMAGINE
Si chiamano Ḥarakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn o più semplicemente Shabab, sono meno conosciuti ma non meno truculenti e pericolosi dei più famosi taliban, con i quali sono accomunati dall'ignoranza fondamentalista e dall'odio per l'occidente - Stati Uniti ed Israele in primis - e forse per questo motivo in Italia sono identificati dai pacifisti e da fazioni dell'estremismo di destra e di sinistra come paladini della libertà.
Dal 1993 la Somalia è letteralmente allo sbando, squartata politicamente e geograficamente, senza un'autorità governativa credibile e con gran parte dei territori del sud sottoposti ad una Sharia violenta e repressiva
In Somalia è presente dal 2007 un contingente militare dell'Unione Africana - l'Amisom: African Mission in Somalia - che non sembra in grado non solo di  porre fine alla sanguinosa guerra in corso ma non è neppure in grado di arginarne la violenza e mitigare le disperate condizioni subumane in cui da ormai quasi venti anni vive l'intera popolazione somala. Il fondamentalismo islamico, come già è avvenuto nell'Afghanistan dei taliban, ha generato miseria ed orrore demolendo ogni struttura civile e amministrativa e provocando un esodo verso il Kenya che sta creando notevoli problemi e disagi lungo le città di confine, da cui affluiscono cellule dormienti di  Shabab sparse ormai in tutto il Kenya, dove controllano varie attività illegali.

La settimana scorsa ho raggiunto Mandera, in Kenya, al confine con la Somalia, a bordo di un aereo dei Flyng Doctors messo a disposizione dall'AMREF che ha supportato me e Pietro Del Re de La Repubblica nella realizzazione di un documentario dedicato all'emergenza sanitaria africana.

Mandera è uno dei punti più caldi al confine con la Somalia, qui ha sede il campo profughi Border Point One che accoglie non meno di 8 mila profughi somali. A Mandera sono presenti consistenti reparti  delle Forze Armate kenyote ed è in vigore il coprifuoco, per spostarci abbiamo dovuto chiedere il permesso alle forze di sicurezza kenyote che ci hanno fornito una scorta; dopo poche ore ci hanno informato che dovevamo rientrare nel compound dove avevamo preso alloggio perché si era già diffusa la notizia che due bianchi giravano per la città a bordo di un pick up scortato da due soldati.
E qui, in questa fascia di terra di nessuno, due bianchi con telecamera che si muovono sotto scorta sono il logico prodotto per un rapimento.

Dopo due giorni, sabato il 19 febbraio 2011, siamo rientrati, sempre con il Cessna Caravan dell'AMREF, al Wilson Airport di Nairobi ed abbiamo casualmente assistito ad un'azione di medevac operato dai Flyng Doctors per riportare da Mogadishu dei feriti dell'UA (Unione Africana) ma non siamo riusciti a realizzare le riprese per l'aggressiva ostilità dei funzionari dell'UA presenti perché: "Somalia acuna matata" ossia "in Somalia va tutto bene, non succede niente, è tutto sotto controllo" e mentre furiosi dicevano questo c'era il sangue che grondava dalle barelle appena scaricate dal Cessna Citation.

Al nostro rientro in Italia abbiamo poi ricevuto da nostri contatti al Wilson Airport di Nairobi questa e mail.
"...si combatte anche molto a Mogadishu.
Da domenica (20 febbraio 2011)  abbiamo avuto una media di 4 voli al giorno per portare via i feriti.
Gli ospedali di Nairobi non hanno più la capacità per assorbire il numero di vittime e i voli di ieri hanno iniziato a portare i pazienti agli ospedali di Mombasa." 

In realtà notizie d'agenzia - quasi totalmente ignorate in Italia, forse perché la guerra in somalia non rende sotto il profilo mediatico - parlano di oltre 50 morti e, secondo testimoni oculari, nella sola Mogadiscio sono rimasti uccisi non meno di venti civili, intrappolati in mezzo al fuoco incrociato dei contendenti, mentre gli stessi guerriglieri islamici hanno mostrato in pubblico i cadaveri di cinque militari burundesi appartenuti all'Amisom .

Questa che segue è la traduzione di  un articolo di WALTER MENYA giornalista dell'Agenzia Nation Media di Nairobi.


 

Lo staff della croce rossa sfugge alla morte in un combattimento di frontiera.

Lo staff della croce rossa del Kenya di Mandera si è trovata sotto il tiro di armi da fuoco venerdì (il giorno dopo la nostra partenza da Mandera. n.d.r.), il terzo giorno della pesante lotta sul confine con Etiopia e Somalia.

Secondo Abbas Gullet, il segretario generale della KRCS (Kenya Red Cross Society), i loro uffici nella città di confine sono stati raggiunti da vari colpi.

Sei membri dello staff erano rifugiati lì in quel momento, ma il signor Gullet ha detto via radio che non ci sono state vittime nell'incidente: “Diversi colpi partiti dalla linea di confine hanno colpito gli uffici della Red Cross di Mandera, dove sei membri dello staff erano rifugiati, insieme a molti altri abitanti della città".

Il capo della KRCS, comunque, ha riferito che "...c'è stata una vittima portata già morta al primo punto di confine e 10 altre vittime sono state trasportate all'ospedale del distretto di Mandera".


“...i combattimenti sono cominciati alle dieci di stamattina (venerdì), e gli spari hanno sconvolto la città, portando residenti e rifugiati all'interno degli uffici”, ha detto.

Il signor Gullet ha raccontato che poteva sentire gli spari come sottofondo della chiamata con il coordinatore del gruppo KRCS di Mandera alle 3 del pomeriggio.

I combattimenti, ha aggiunto, hanno messo in pericolo le vite di lavoratori umanitari e di altri residenti della città di Mandera.

Abbiamo riportato quest'ultimo incidente al governo e speriamo che gli uffici della KRCS, che hanno anche una croce rossa sulla bandiera montata sul tetto, saranno protetti. L'emblema della croce rossa è un simbolo protetto dalla convenzione di Ginevra e tutte le parti di un conflitto sono tenute a rispettarlo” ha detto.

In un passato recente, e nella situazione attuale, KRCS e altre associazioni umanitarie hanno assistito la popolazione che fugge dai conflitti somali. Centinaia di rifugiati sono ora sparsi dalla parte keniota del confine, nonostante sia azzardato raccoglierli in campi fino alla fine del conflitto.

Il signor Gullet ha detto inoltre che il conflitto ha ritardato la risposta umanitaria così come i rifugiati che richiedono cibo e riparo non possono accedere a nessun aiuto sotto questa situazione diffusa.
Walter  Menya
(Con la collaborazione di Francesca Vinciguerra)

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